Antonio Ligabue: il genio tormentato dell’arte naif
Durante un viaggio a Nizza, nel museo d’arte Naif mi sono imbattuto in una piccola opera di Antonio Ligabue. Non era un dipinto di grandi dimensioni, ma una tela che sprigionava un’energia quasi inquietante, una forza visiva difficile da ignorare. I suoi colori accesi e il tratto nervoso sembravano parlare direttamente all’osservatore, come se Ligabue fosse ancora lì, con il suo sguardo fuggitivo e la sua anima inquieta. Questa breve esperienza mi ha spinto a ripercorrere la sua vita e il suo percorso artistico, per capire cosa renda il suo lavoro così viscerale e unico.

Una vita di sofferenza e isolamento
Antonio Ligabue, nato nel 1899 in Svizzera da genitori italiani, visse un’infanzia segnata dall’abbandono e dalla malattia. A causa di gravi disturbi psichici, venne più volte internato in istituti psichiatrici e, nel 1919, espulso dalla Svizzera. Si ritrovò così in Italia, nella zona di Gualtieri (Reggio Emilia), dove visse in estrema povertà, emarginato dalla società.
Ligabue trovò nella pittura un modo per esprimere il proprio dolore e la propria visione del mondo. Dipingeva con furore, ossessionato dalle immagini che popolavano la sua mente: animali feroci, autoritratti tormentati, paesaggi vibranti di colori innaturali. La sua era un’arte istintiva, lontana dalle convenzioni accademiche, ma capace di trasmettere un’intensità emotiva rara.
Lo stile: tra espressionismo e arte naif
Sebbene Ligabue sia spesso associato all’arte naif, la sua pittura presenta elementi che vanno oltre questa definizione. Le sue tigri, leoni, aquile e giaguari sembrano usciti da un incubo espressionista, con occhi spiritati e denti affilati pronti a ghermire la preda. Allo stesso tempo, il suo modo di dipingere i paesaggi e le figure umane ha un aspetto quasi infantile, con prospettive distorte e colori accesi che ricordano Henri Rousseau, altro grande esponente dell’arte naif.
I suoi autoritratti sono altrettanto potenti: Ligabue si raffigura con uno sguardo malinconico e allucinato, spesso con le mani in una posizione innaturale, quasi a sottolineare il disagio che lo accompagnò per tutta la vita. In queste opere non c’è alcuna idealizzazione, ma solo il crudo realismo di un uomo che si sente estraneo al mondo.

Il riconoscimento tardivo e il mito postumo
Per gran parte della sua esistenza, Ligabue fu considerato un outsider, un “matto” che dipingeva per istinto. Solo negli anni ’50, grazie all’interesse del critico e scultore Mazzacurati, il suo talento venne finalmente riconosciuto. Le sue prime mostre ufficiali lo fecero emergere come uno degli artisti più originali del panorama italiano del Novecento. Tuttavia, la fama non riuscì a salvarlo dalla sua fragilità interiore. Morì nel 1965, lasciando dietro di sé un corpus di opere che oggi sono considerate tra le più potenti espressioni dell’arte italiana del XX secolo.
Ligabue al cinema: “Volevo solo nascondermi”
La sua vita travagliata è stata raccontata nel film Volevo solo nascondermi (2020), diretto da Giorgio Diritti e interpretato magistralmente da Elio Germano. Il film restituisce con grande sensibilità la complessità di Ligabue, mostrando il suo rapporto con la pittura come un’esigenza vitale, un modo per sopravvivere all’emarginazione e alla sofferenza. Germano, grazie a un’interpretazione intensa e fisica, riesce a dare vita a un Ligabue credibile e struggente, restituendo al pubblico il senso di smarrimento e genialità che ha caratterizzato l’artista.

Antonio Ligabue: il genio tormentato dell’arte naif
Antonio Ligabue rimane una figura affascinante e controversa, un artista capace di trasformare il dolore in bellezza, l’emarginazione in espressione pura. La sua arte, cruda e viscerale, continua a colpire per la sua autenticità e per l’energia quasi animalesca che trasmette. Vedere una sua opera, anche solo una piccola tela inaspettata in una galleria di Nizza, è un’esperienza che non lascia indifferenti. È la prova che l’arte, quando è vera, non ha bisogno di spiegazioni: parla direttamente all’anima.
Francesco Cogoni.
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