Come la musica queer sta cambiando il suono del mondo
Come la musica queer sta cambiando il suono del mondo? Premetto che non dimenticherò mai quella sera a Londra.
Ero in città per pochi giorni, in cerca di ispirazione, quando il mio amico Jamie – un’anima punk con cuore glitterato – mi ha detto:
“Stasera ti porto in un posto dove la musica è libera. E le persone lo sono ancora di più.”
Mi ha portato a Dalston, in un locale underground chiamato The Glory, punto di riferimento per la scena queer londinese. Entrando, ho subito capito che non ero in un club qualunque: lì dentro non c’erano solo suoni, ma identità che vibravano, si dichiaravano, esplodevano.
Sul palco c’era una band che non conoscevo: Queen Zee – punk, cruda, irriverente. La cantante, gender non-conforming, cantava con una furia dolce di chi ha dovuto urlare per farsi ascoltare. In quella voce c’erano rabbia, orgoglio, ironia. Era la prima volta che vedevo un concerto così esplicitamente queer… e così dannatamente autentico.

Non solo Pride: la musica queer come atto politico
Quella serata ha acceso qualcosa in me. Ho iniziato a chiedermi: perché non conoscevo già tutto questo? Perché la musica che passa in radio, nei grandi festival, nei premi patinati, raramente racconta storie LGBTQ+ con la stessa verità, la stessa forza?
La risposta è scomoda, ma reale: la musica queer è spesso stata messa ai margini, anche quando era sotto gli occhi (o nelle orecchie) di tutti. Pensiamo a Sylvester, icona della disco anni ’70, voce celestiale e spirito genderfluid che ha dato un’anima soul al movimento LGBTQ+. Oppure a Frank Ocean, che con Channel Orange ha raccontato una storia d’amore queer con una delicatezza disarmante, diventando uno degli artisti R&B più influenti del nuovo millennio.
E ancora: Christine and the Queens, oggi noto come Redcar, che gioca con i generi musicali e di genere, fondendo elettronica, pop e riflessione filosofica sull’identità. O Anohni, ex Antony and the Johnsons, che porta avanti una musica fatta di lamenti celesti e testi che parlano di ecologia, transizione e dolore con poetica cruda.
Il suono di una generazione che non chiede più il permesso
Nel locale, tra una birra e un’altra, Jamie mi ha raccontato di come la scena queer non sia solo “musica LGBTQ+”, ma una vera e propria cultura. Non si tratta solo di artisti che sono queer, ma di artisti che fanno della queerness la loro estetica, la loro etica, il loro linguaggio musicale.
Penso a Rina Sawayama, che in Chosen Family celebra le famiglie queer costruite fuori dai legami biologici. O a Janelle Monáe, artista pansexual e non binaria, che nel suo capolavoro Dirty Computer fonde funk, afrofuturismo e attivismo, creando un mondo utopico dove libertà sessuale e identitaria sono legge.
Poi ci sono i nuovi nomi, quelli che probabilmente ascolti senza sapere quanto sono politicizzati: Lil Nas X, che con MONTERO (Call Me By Your Name) ha infranto ogni tabù sull’omosessualità nel rap, ballando con il diavolo su tacchi alti e portando un messaggio chiaro: “non mi vergogno di chi sono, siete voi a dovervi adeguare”.
La musica queer non è un genere. È un prisma.
Quello che ho capito è che non esiste un unico “suono queer”. C’è il pop malinconico di Troye Sivan, l’elettronica elegante di Arca, le ballate soul di Sam Smith, la techno militante dei club berlinesi dove il genere non ha più senso. C’è persino chi riporta l’estetica queer nel metal, come Gaahl, ex vocalist dei Gorgoroth, dichiaratamente gay in un mondo notoriamente machista.
La musica queer non si definisce per lo stile, ma per lo sguardo. Per la libertà con cui si scrivono testi, si costruiscono performance, si incarnano nuovi modi di stare al mondo. E oggi, più che mai, questa libertà è contagiosa. Sta ridefinendo il pop, il rock, il rap, l’indie. Sta cambiando il suono del mondo.
Tornando a casa
Quella sera, tornando a piedi sotto la pioggia, ho capito una cosa: la musica queer non è “di nicchia”. È ovunque. Solo che ora ha smesso di chiedere permesso.
E io sono grato a Jamie, a The Glory, a quella voce roca sul palco, per avermi aperto le orecchie. E il cuore.
Francesco Cogoni
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