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Il Teatro dell’Oppresso: il teatro diventa uno specchio del cambiamento

Ricordo perfettamente la prima volta che ho partecipato a un laboratorio di Teatro dell’Oppresso. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Credevo fosse un’esperienza teatrale come tante, magari alternativa, forse un po’ sperimentale. Non immaginavo che avrei messo in discussione così tante certezze su me stesso, sul mio ruolo nella società e sul potere trasformativo dell’arte.

Il Teatro dell’Oppresso – o TdO – non è solo un metodo. È una filosofia, un linguaggio, una pratica di liberazione. Nato negli anni ’60 in Brasile grazie al regista e attivista Augusto Boal, il TdO è stato concepito in un contesto di repressione politica, ispirato profondamente dalla Pedagogia dell’Oppresso di Paulo Freire. La missione era chiara: offrire agli ultimi, ai dimenticati, ai silenziati, uno strumento per comprendere e trasformare la propria realtà.

Il teatro dell’oppresso senza palcoscenico

Quello che mi ha colpito subito è l’abbattimento della barriera tra attore e spettatore. Nel TdO lo spettatore diventa “spett-attore”, una figura attiva che può intervenire nella scena, cambiarne il corso, proporre soluzioni. È un ribaltamento radicale del teatro tradizionale. Nessuno rimane seduto a guardare passivamente: si agisce, si sperimenta, si rischia.

Non c’è bisogno di un palco, di costumi elaborati o luci teatrali. Basta un gruppo di persone, una situazione da esplorare, e la volontà sincera di mettersi in gioco. Questo approccio ha qualcosa di profondamente democratico e inclusivo. È teatro che appartiene a tutti, non solo a chi ha studiato o può permettersi un biglietto.

Un linguaggio per leggere il mondo

Attraverso le sue tecniche – come il Teatro Forum, il Teatro Invisibile, il Teatro Immagine, l’Arcobaleno del Desiderio – ho imparato a vedere i conflitti sociali e interiori con occhi diversi. Ogni esercizio è un’esplorazione condivisa. Ogni scena rappresenta una domanda più che una risposta. Qual è il ruolo che interpreto ogni giorno nella mia vita? In che modo sono parte, anche inconsapevolmente, di una dinamica oppressiva? Cosa potrei fare di diverso?

In uno degli esercizi più potenti, ho assistito a una scena in cui una giovane donna subiva una discriminazione sul lavoro. Quando è stato chiesto al pubblico di intervenire, le alternative proposte erano tante: alcune ingenue, altre coraggiose, altre ancora profondamente rivelatrici. Ma tutte avevano qualcosa in comune: la possibilità di immaginare un altro finale. E quella, per me, è stata una rivelazione.

Un’arte che cura, educa e cambia

Negli anni ho visto il TdO applicato in scuole, centri sociali, carceri, comunità terapeutiche. L’ho visto dare voce a chi normalmente non ne ha: migranti, persone senzatetto, adolescenti in difficoltà. Ho visto trasformare l’angoscia in azione, la rabbia in proposta, la confusione in consapevolezza. Non è una terapia, ma può essere profondamente terapeutico. Non è un partito politico, ma è politico nel senso più nobile: perché parla della polis, della vita comune, dei rapporti di potere che ci attraversano.

Il Teatro dell’Oppresso: L’eredità di Boal

Augusto Boal diceva che “tutti gli esseri umani sono attori perché agiscono, e spettatori perché osservano”. E aveva ragione. Il Teatro dell’Oppresso ci ricorda che il cambiamento è possibile solo se ci coinvolgiamo, se smettiamo di osservare da lontano e iniziamo a partecipare, a fare domande, a costruire insieme.

Oggi, più che mai, in un mondo segnato da ingiustizie vecchie e nuove, questo teatro ha qualcosa da dirci. Non ci offre soluzioni preconfezionate, ma ci dà uno spazio – raro e prezioso – per immaginare alternative, per allenarci al cambiamento, per riscoprire il potere collettivo dell’azione.

E ogni volta che torno a far parte di un gruppo di TdO, mi ricordo che il teatro non è solo finzione. Può essere anche una prova generale per un mondo più giusto.

Francesco Cogoni.

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