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Intervista al regista Giovanni Coda: cineasta indipendente

Giovanni Coda è un regista e fotografo noto per il suo impegno nella narrazione cinematografica e fotografica su tematiche sociali e diritti umani. Il suo lavoro si distingue per uno sguardo estetico potente e una sensibilità unica nel raccontare storie spesso dimenticate o marginalizzate. In questa intervista, esploriamo il suo percorso artistico, le influenze che hanno plasmato la sua visione e i progetti che sta sviluppando, tra cinema, fotografia e sperimentazione visiva.

Intervista a Giovanni Coda

F.C. Il tuo cinema è spesso legato a tematiche sociali forti. Cosa ti ha spinto a scegliere questa direzione?

G.C. Seguo un percorso profondamente radicato nella mia formazione pedagogica, che mi offre gli strumenti per esplorare con consapevolezza tematiche a me care, non solo per competenza accademica, ma soprattutto per autentica convinzione e affinità ideologica.

F.C. Hai un autore, un regista o un fotografo che ha particolarmente influenzato la tua visione artistica?

G.C. Il mio riferimento iconografico ha sempre trovato ispirazione in Peter Greenaway, per poi arricchirsi nel tempo con le figure di Lars Von Trier e David Lynch. Al contempo, la mia amicizia con Gianni Toti, Aldo Braibanti e Gianpaolo Berto mi ha trasmesso preziosi insegnamenti estetici e filosofici, fondamentali nella mia ricerca di un linguaggio cinematografico personale e privo di compromessi.

Film e componente estetica

F.C. Nei tuoi film e nelle tue fotografie c’è una forte componente estetica. Come bilanci il valore artistico con il messaggio sociale?

G.C. Il bilanciamento si compie per osmosi, in un dialogo armonico tra forma e contenuto. La cura “fotografica” che permea i miei lavori, siano essi cinematografici o fotografici, non si limita alla ricerca minuziosa del dettaglio, ma si estende all’intero impianto narrativo, esaltandolo e amplificandone la forza espressiva. Ogni inquadratura diventa così un tassello imprescindibile di un racconto visivo che ambisce a un equilibrio sottile tra estetica e significato.

F.C. Qual è il progetto che, fino ad oggi, senti più vicino alla tua sensibilità?

G.C. Il mio film Il Rosa Nudo, ispirato alla tragica storia di Pierre Seel, deportato omosessuale durante la Seconda Guerra Mondiale, segna una svolta cruciale nel mio percorso cinematografico. In esso ho distillato l’essenza del linguaggio della videoarte, asciugandolo in un’estetica più essenziale e “francescana”, senza intaccarne la potenza narrativa. Al contrario, ho cercato di amplificarne la carica evocativa ed emotiva, affinché ogni immagine risuonasse con intensità e profondità, trasformando il minimalismo formale in una forza espressiva capace di incidere nell’animo dello spettatore.

Sul lavoro con The Social Gallery:

F.C. La Social Gallery nasce con un forte impegno per la giustizia sociale. Come è nata questa idea e qual è la sua missione principale?

G.C. L’idea della Social Gallery ha preso forma a Seattle, durante un incontro con l’allora Direttrice del Social Justice Film Festival. Il progetto nasce dal desiderio di creare uno spazio espositivo che restituisca centralità allo spettatore, riportandolo a un’esperienza di fruizione artistica autentica e tangibile. In un’epoca dominata dalla virtualità, la Social Gallery si propone come un luogo di incontro reale, dove il dialogo si sviluppa attraverso l’arte e la cultura, favorendo una partecipazione attiva e consapevole. La sua missione fondamentale è quella di offrire un contenitore accessibile e inclusivo, capace di affrontare tematiche di forte attualità socio-culturale, stimolando riflessioni profonde e valorizzando il potere dell’incontro e dello scambio umano.

F.C. Quanto è importante oggi avere spazi artistici dedicati alla riflessione su diritti e giustizia sociale?

G.C. È un’esigenza imprescindibile, un’urgenza vitale. L’istituzione di nuovi spazi dedicati alla riflessione e alla critica costruttiva è un valore inestimabile, soprattutto in un’epoca in cui i social media, sempre più pervasivi, faticano a distinguere la realtà dalla sua distorsione, alimentando narrazioni semplificate e spesso fuorvianti. Il tema dei diritti umani rimane un pilastro irrinunciabile delle democrazie occidentali, ma oggi più che mai nulla può dirsi al riparo dall’onda lunga del populismo e dei nazionalismi che, senza confini, minacciano le conquiste civili su scala globale. Per questo, spazi di dialogo e confronto critico diventano essenziali: ben vengano luoghi che favoriscano il dibattito autentico, ben vengano incontri capaci di riaccendere il pensiero e l’indignazione contro una deriva socio-culturale sempre più priva di argini.

Sul cinema di Giovanni Coda e sulla la società contemporanea:

F.C. I tuoi film affrontano spesso tematiche legate alla memoria storica e alle discriminazioni. Credi che il cinema abbia ancora la forza di cambiare la società?

G.C. Il cinema, da sempre, conserva intatta la sua straordinaria capacità di informare, interrogare e denunciare le ingiustizie del mondo, fungendo non solo da specchio della realtà, ma anche da strumento di trasformazione sociale. Questo potere si manifesta in modo particolarmente incisivo nella sua espressione più autentica e ostacolata: il cinema indipendente. È proprio qui, lontano dalle logiche commerciali e dai compromessi imposti dall’industria, che il linguaggio cinematografico riesce a raggiungere la sua massima forza critica e politica.

Se il cinema mainstream, pur dominato dall’imperativo dell’intrattenimento, tenta talvolta di affrontare tematiche di rilievo sociale – con esiti alterni – è nella produzione indipendente e militante che si realizzano le opere più audaci e incisive. Un cinema libero, svincolato da pressioni economiche e ideologiche, capace di dare voce agli esclusi e di svelare verità scomode. Questo è il cinema che ha tanto appassionato figure come Adriano Aprà e che continua a rappresentare un baluardo di resistenza culturale.

Con Il Rosa Nudo (e mi ripeto) ho cercato di contribuire a questa missione, portando alla luce una storia fino ad allora poco conosciuta: quella di Pierre Seel, vittima dell’orrore nazista a causa della sua omosessualità. Il film non solo ha commosso profondamente il pubblico, ma ha anche ottenuto un’eco mediatica significativa a livello internazionale, dimostrando ancora una volta che il cinema può essere un potente strumento di memoria e consapevolezza collettiva.

Stile cinematografico di Giovanni Coda

F.C. Il tuo stile mescola documentario e narrazione artistica. Come nasce questa scelta estetica?

G.C. La mia è una ricerca incessante, che si protrae da oltre tre decenni—trentacinque anni, per l’esattezza, un traguardo che celebro proprio quest’anno. Mi considero un fotografo, o almeno tento di esserlo, esplorando la realtà con l’intento di coglierne il senso profondo, le geometrie latenti e i codici espressivi. Il mio sguardo, tuttavia, non si limita alla fotografia, ma si apre al dialogo con altre discipline artistiche, come la Musica, la Danza e la Performance, in un continuo processo di ibridazione.

L’immagine fotografica si fonde con quella cinematografica, rifuggendo ogni intento didascalico e dando vita a opere fruibili su più livelli: visivo, narrativo e sonoro. La struttura stessa di molti miei film permette di percepirli anche solo attraverso l’ascolto, senza che il loro significato o la loro carica emotiva ne risultino attenuati. Perché, in fondo, ogni immagine racconta una storia, ma non sempre ha bisogno di essere vista per essere compresa.

Giovanni Coda: Censure

F.C. Hai mai incontrato censure o difficoltà nel proporre certi argomenti?

G.C. La censura, si sa, non colpisce solo per gli argomenti trattati. Esiste una forma più sottile e insidiosa: quella esercitata da chi, forte delle proprie certezze artistiche, esclude tutto ciò che sfugge al proprio orizzonte estetico. È una censura preventiva, travestita da giudizio critico, che si traduce in un crescendo di ostilità formale e in un sistematico tentativo di prevaricazione nei confronti di chi osa infrangere le convenzioni.

L’indipendenza creativa, per quanto mi riguarda, ha senso solo quando destruttura le forme codificate dell’arte, cinema compreso. E questo, evidentemente, non è sempre ben accetto. Ne ho avuto prova diretta quando, al Festival di Shanghai, il mio film Il Rosa Nudo è stato censurato senza il mio consenso, con il taglio arbitrario di alcune scene. Un gesto che dimostra come la censura non abbia bisogno di proclami ideologici: spesso basta un paio di forbici ben affilate e la ferma convinzione che il diverso sia, in fondo, un errore da correggere.

Il futuro del cinema indipendente

F.C. Come vedi il futuro del cinema indipendente e d’autore in un’epoca dominata dalle piattaforme di streaming?

G.C. Il futuro del cinema indipendente si muove su un crinale complesso, sospeso tra la necessità di sopravvivere e il rischio di omologazione. Come già accennato, le piattaforme di streaming non vanno demonizzate a priori: nel bene e nel male, rappresentano un canale di diffusione che, se regolato con maggiore attenzione, potrebbe persino rivelarsi un alleato. Del resto, il vero ostacolo del cinema indipendente non è la tecnologia, ma la cronica assenza di una rete distributiva adeguata. In questo senso, lo streaming potrebbe paradossalmente offrire una soluzione a un problema che il sistema tradizionale si ostina a ignorare.

Tuttavia, il cinema d’autore ha ancora molto da raccontare, proprio perché si nutre di passione più che di budget miliardari. Il problema, semmai, è che negli ultimi anni assistiamo a un proliferare di opere che si autoproclamano d’essai senza possederne né il rigore né la profondità. Si tratta di un fenomeno in continua espansione, in cui film di sconcertante inconsistenza vengono avvolti in un’aura pretenziosa, come se bastasse un’estetica ricercata o un ritmo dilatato per giustificarne l’esistenza. E così, mentre il cinema indipendente autentico continua a lottare per uno spazio di visibilità, dobbiamo anche fare i conti con un’overdose di pseudo-autorialità di cui, onestamente, potremmo fare volentieri a meno.

Il messaggio e l’importanza delle domande

F.C. C’è un messaggio che vorresti lasciare a chi segue il tuo lavoro e la tua ricerca?

G.C. Saranno i miei film e le mie fotografie a parlare per me. Non nutro la pretesa di considerare il cinema, o l’arte in generale, come un mezzo per impartire verità assolute. Al contrario, credo che l’arte abbia un compito ben più nobile: quello di sollevare domande, di mettere in discussione certezze, di smascherare le contraddizioni della società.


Le risposte, in teoria, spetterebbero alla politica o a chi ne detiene le responsabilità. Tuttavia, viviamo in un’epoca in cui di risposte se ne trovano ben poche, se non a quella crescente e insaziabile sete di potere. Siamo immersi in un contesto storico dominato dall’egoismo e dalla necessità di imporre la propria visione del mondo, spesso avulsa da ogni confronto con la realtà. In questo scenario, il dialogo viene soffocato dall’arroganza e il dibattito sostituito dall’imposizione, in un gioco al massacro dove ciò che conta non è più comprendere, ma prevalere.

Francesco Cogoni.

Contatti social:

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Jo Coda (@giovanni_coda) • Foto e video di Instagram

Sito: Giovanni Coda È un regista cinematografico, autore sceneggiatore e fotografo italiano.

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Giovanni Coda è un regista e fotografo noto per il suo impegno nella narrazione cinematografica e fotografica su tematiche sociali e diritti umani.
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2 thoughts on “Intervista al regista Giovanni Coda: cineasta indipendente

  • Giovanni è un artista che in questa intervista mette in evidenza il suo coraggio, la sua sensibilità e la sua competenza.

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    • Siamo perfettamente d’accordo, è stato gentilissimo e disponibile. Ci auguriamo di vedere presto e poter recensire il suo prossimo film

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