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Intervista a Federica Gonnelli

Federica Gonnelli è un artista il cui percorso ruota attorno a tre capisaldi. Corpo, spazio e tempo da cui si sviluppano rispettivamente le riflessioni circa identità, confini e memoria.

Quando e come nasce il tuo percorso artistico?

“Il come”:

Ho sentito fin da piccolissima la necessità di creare, progettare, fare, amare l’arte.

Sono cresciuta tra stoffe, scatoline di cartone, fili colorati, manichini, abiti (mia mamma era sarta). E ancora libri, enciclopedie e cataloghi d’arte (eredità di mio nonno materno condivisa e ampliata dai miei genitori). Senza dimenticare pennarelli, colori di varie tipologie e carte (che vedevo usare con eleganza ed estrema maestria da mio cugino Sandro).

Tutti elementi che nella mia giocosa creatività di bambina ho indifferentemente sempre mescolato.

Elementi inscindibili che per me, avevano un’unica base: il disegno.

Per questo, il desiderio espresso durante lo spegnimento delle candeline del mio quinto compleanno, fu esattamente: “voglio saper disegnare!” Ho sempre pensato che il disegno è la base per ogni progetto, per ogni creazione in ogni ambito del fare umano, il disegno è la traccia, la radice dalla quale si sviluppa tutto.

Il quando”:

Crescendo e scegliendo il Liceo Artistico e successivamente l’Accademia di Belle Arti di Firenze.

In particolare posso indicare “il quando” all’inizio del secondo anno di Accademia.

Dopo un anno di sperimentazioni in ambito pittorico e dopo un’estate di riflessione culminata con il confronto con i tragici fatti del G8 di Genova e dell’attentato dell’11 settembre, è cambiato il mio approccio alla vita e all’arte.

Ho riscoperto le mie sperimentazioni di bambina ed ho iniziato il mio percorso artistico di ricerca concettuale e sull’uso dei materiali più vari, che fin da subito si è contraddistinto per l’utilizzo estremamente personale e riconoscibile del velo d’organza.

Mi ritengo fortunata ad aver intrapreso così presto un mio percorso, che nella continuità mi ha permesso di sperimentare ed evolvermi.

Quali persone, artisti ed episodi hanno influenzato maggiormente il tuo lavoro?

Come ho già detto, la mia famiglia è stata di grande importanza per lo sviluppo del mio percorso artistico e personale.

Tra tutti i miei affetti, sicuramente mio nonno materno Goretto, che purtroppo non ho mai conosciuto, è stato un riferimento molto importante.

Mio nonno amava la pittura e fin da giovanissimo ha dipinto con risultati che ne evidenziavano il talento, poi purtroppo la vita, la seconda guerra mondiale, il lavoro lo hanno allontanato da questa passione, che ha ritrovato solo nei pochi anni di vita dopo la pensione, un tumore purtroppo l’ha portato via a 58 anni.

Ho sempre sentito la sua presenza vicino a me, sono sicura che avrebbe apprezzato ciò che faccio e che sarebbe stato partecipe nell’elaborazione dei miei progetti, dato che era dotato anche di grande creatività, progettualità e manualità.

Caratteristiche che forse ho ereditato proprio da lui.

A lui e al suo amore per l’arte, infranto, se così si può dire, ho dedicato la videoinstallazione “Louise & Herbert” ispirata a due poesie dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Più in generale l’esperienza di confronto con l’arte è avvenuta fin da molto piccola nelle chiesette della campagna toscana più o meno note. Tra le architetture rinascimentali e quelle contemporanee di Michelucci, tra scrigni di preziosi tesori, durante le passeggiate a Firenze con la mia famiglia. Nel vedere nascere il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci progettato da Gamberini.

In particolare di quegli anni ricordo due mostre: la Fondazione Nasher nel 1988 al Forte Belvedere e Klimt a Palazzo Strozzi nel 1991.

Due mostre che per me furono di grande suggestione.

Ricordo le grandi emozioni all’interno del Museo degli Uffizi di fronte al susseguirsi delle opere di Giotto, Cimabue, Masaccio, Piero della Francesca, Pontormo. Fino ad arrivare a Bronzino, Leonardo Michelangelo, Caravaggio…

Da tutte queste esperienze ho ereditato l’amore per le proporzioni. Per la figura umana, per il corpo, per la maestosità della presenza, fiera e ieratica. Ho ereditato l’attenzione alla spazialità, la ricerca dei significati e dei simboli.

Grande importanza ha avuto per me negli anni successivi lo studio di artisti come Brancusi, Duchamp, Oppenhein, Beuys, Bourgeois, Manzoni, Fontana, Kahlo, Lai, Paolini, Hesse, Pane…

Artisti dai quali ho capito che il gioco è importante quanto la coerenza.

Perché la coerenza dell’artista è prima di tutto dentro se stesso, nella sua vita, nel suo percorso e di conseguenza successivamente in ogni sua opera, ma al tempo stesso occorre a ogni opera sapersi mettere in gioco.

Ho capito che la razionalità è importante quanto il sogno, ho capito che ogni elemento dell’opera ha un suo perché, ho capito che i limiti si superano, ma occorre sapersi fermare.

Ho capito ancora una volta che non ci sono distinzioni tra le arti.

Cosa cerchi attraverso l’arte?

Cerco di evidenziare che le cose non sono mai appaiono ad un primo sguardo, vedere per la prima volta o con nuovi occhi il già visto.

Ciò che più mi preme è come l’osservatore si approccia all’opera e all’interpretazione del messaggio contenuto, il tempo che vi dedica e quanto decide di calarsi nella profondità delle varie stratificazioni materiali e simboliche dell’opera.

La mia ricerca ruota tutta attorno all’idea di una nuova visione, sull’attraversamento di dimensioni fisiche o temporali.

L’apparenza è una lente, un velo trasparente che avvolge il reale, la memoria, la percezione di noi stessi.

I miei progetti creano luoghi che accolgono sguardi diversi da nuovi occhi e al tempo stesso aprono finestre su altre strade, forse già viste o percorse, ma che hanno acquisito nuove caratteristiche.

Spazi dove la situazione umana diventa racconto poetico e simbolico, pur non negando la sua natura terrena e materica.

Spazi dove metto in mostra le tracce di un evento, il passaggio specifico di una storia.

Il confine è esso stesso un protagonista costante della mia ricerca mediante l’utilizzo del velo d’organza, che non deve essere considerato come un mero supporto, ma come un determinante mezzo espressivo che concorre nel significato dell’opera.

Il velo d’organza è un abito, una membrana osmotica che mette in comunicazione le varie parti; donando una voce, un’identità sempre diversa, attraverso le immagini che su di esso sono realizzate, ma che allo stesso tempo impone uno slancio agli osservatori che vogliono scoprire cosa vi si cela dietro.

Il mio lavoro permette una molteplice stratificazione di materiali e di interpretazioni che, di volta in volta, privilegiano diverse componenti costitutive.

Si può esaminare un’opera dal punto di vista dei materiali utilizzati, soprattutto tessuti e organza, ma anche dal punto di vista dell’immagine, o del rapporto tra questa e linguaggio.

Ogni percorso interpretativo finisce per supporne un altro, così che non possa mai dirsi completamente esaurita la lettura.

Il senso dell’opera d’arte, è nella stratificazione di trasparenze: la “densità” di un’opera deve consentire di intravedere quanto è oggetto della rappresentazione.

Non deve, la rappresentazione sostituirsi all’oggetto rappresentato, essere cioè troppo densa e opaca, ma al tempo stesso non può nemmeno diventare una trasparenza pienamente penetrabile, di nessuna densità, togliendo consistenza all’opera.

La rappresentazione deve lasciarsi attraversare.

La sequenza dei piani impone un movimento allo spettatore, che non può rimanere fermo, magari eleggendo un ottimale punto di vista, come farebbe dinanzi a un dipinto, ma è costretto a una costante variazione della propria posizione che, di conseguenza, porta a una costante variazione della configurazione dell’opera.

Il movimento dell’osservatore verso l’opera implica di conseguenza l’inevitabile legame tra l’opera e il contesto in cui o per cui è realizzata o inserita.

Questo movimento opera – osservatore – luogo ha trovato nella mia ricerca la sua massima espressione proprio durante le residenze artistiche.

C’è una parte della tua ricerca di cui vorresti parlare in particolare?

Dal 30 aprile al 21 maggio sono in residenza d’artista a V_AIR 2017 Vimercate Art in Residence, a cura di Martina Corgnati, dove realizzerò una installazione che entrerà a far parte delle collezioni museali del MUST Museo del territorio.

La pratica della residenza ha acquisito una particolare importanza per la mia crescita personale e creativa.

Negli anni ho partecipato a vari workshop, con tutor come Dragana Parlac, Flavio Favelli, Hidetoshi Nagasawa, Tessa Manon Den Uyl e Pietro Gaglianò. Ma solo nel 2015 ho iniziato a praticare delle residenze d’artista.

In particolare, nel corso del biennio 2015-16 ho partecipato a tre residenze: presso Fondazione Pino Pascali a Mola di Bari. A Cosenza per The BoCs e Vis a Vis Fuoriluogo 19 a Castelbottaccio (CB).

Il mio intento, uno dei miei progetti per il futuro, è di riuscire ad intraprendere una residenza d’artista o comunque di sviluppare una serie di ricerche che mi permettano di lavorare strettamente sul territorio in ogni regione italiana. Per poter successivamente confrontare i risultati ottenuti, grazie al comune metodo di sviluppo.

Il confronto non verterà soltanto su

“Che cos’è un confine, come funziona, perché a un certo punto qualcuno decide di stabilire un confine arbitrario, artificiale, non direttamente legato alla presenza di confine naturale e infine come viene vissuto il confine?”,

ma anche su come cambia il modo di confrontarsi con questa tematica, sia da parte degli abitanti, sia da parte mia, al variare della morfologia e posizione geografica del luogo analizzato e al trascorrere del tempo e all’avvento di nuovi fenomeni sociali.

Il 6 maggio, invece, a Sansepolcro ci sarà la presentazione della mostra “AGIBILE” che mi vede protagonista insieme e Francesco Capponi e Carla Rak, a cura di Ilaria Margutti, Laura Caruso e Saverio Verini.

La mostra, la cui inaugurazione è prevista per sabato 8 luglio, segna la riapertura al pubblico di CasermArcheologica.

Infine, tornando alla memoria di mio nonno Goretto, mi piacerebbe portare un progetto al quale sto lavorando da tempo a Calasetta, dove lui ha vissuto alcuni anni durante la seconda guerra mondiale, un’esperienza che lo aveva profondamente colpito e cambiato.

Qual è il tuo rapporto con il mercato?

È un rapporto molto semplice, non mi lascio condizionare.

Cosa consiglieresti ad un artista che vorrebbe vivere d’arte?

L’unico strumento in mano all’artista per emergere è la sua stessa opera, costruire connessioni attraverso di essa. Partecipando a concorsi, workshop, residenze, mostre, sempre scelte con grande attenzione.

Consiglierei di credere nei propri progetti, di non arrendersi, di studiare, di fare e disfare. Di costruire sinergie con altri operatori delle arti in generale e dei vari ambiti della ricerca anche quelli non prettamente “artistici”.

Consiglierei di condividere, atto spesso molto difficile da attuare tra artisti, operatori, spazi. Occorre – fare rete – parola talmente usata negli ultimi anni da sembrare usurata. Ma nonostante tutto questa resta la parola che più di ogni altra rappresenta la possibile soluzione. Una rete costruita da tanti fili, diversi tra loro, ma capaci di legarsi gli uni agli altri. Una rete che trattiene le buone esperienze e al tempo stesso lascia andare quelle negative.

Federica Gonnelli Contatti:

www.federicagonnelli.it

info@federicagonnelli.it

www.facebook.com/federica.gonnelli.art

Francesco Cogoni.

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