Intervista impossibile a Keith Haring
Intervista impossibile a Keith Haring: Ciao, mi presento! Sono Keith Haring, un artista che ha sempre cercato di trasformare l’arte in un linguaggio universale, fatto di linee, colori ed energia. Sono nato nel 1958 a Reading, in Pennsylvania, ma ho trovato la mia voce e la mia casa artistica nelle strade di New York City negli anni ’80. Lì, tra i graffiti della metropolitana e i ritmi pulsanti della città, ho iniziato a creare immagini che parlassero a tutti: figure danzanti, cuori, cani abbaianti, simboli di connessione, protezione e speranza.
Per me, l’arte è sempre stata un ponte tra le persone, un modo per comunicare oltre le barriere linguistiche, culturali o sociali. Ho lavorato ovunque: dai muri delle strade alle gallerie più prestigiose, sempre con l’obiettivo di rendere l’arte accessibile a chiunque. Ho usato il mio lavoro per celebrare la vita, denunciare le ingiustizie e sensibilizzare su temi importanti come l’AIDS, il razzismo e i diritti umani.
Più di tutto, credo che l’arte debba essere condivisa, non chiusa in una cornice. Voglio che chiunque, guardando il mio lavoro, si senta parte di qualcosa di più grande, di una danza collettiva che ci unisce tutti. Perché alla fine, l’arte non è mai solo un’immagine: è un’energia, un messaggio, un atto d’amore.
Intervista impossibile a Keith Haring
F.C. Quando e come è nato il tuo percorso artistico?
Keith Haring: Ah, il mio percorso artistico… È iniziato davvero quando ero un bambino, negli anni ’50 a Kutztown, Pennsylvania. Mio padre era fumettista amatoriale e passavamo il tempo disegnando insieme. Da lui ho imparato a creare linee semplici, personaggi stilizzati e figure che comunicavano movimento e emozione. Quel momento ha piantato i semi della mia visione.
Poi, crescendo, sono stato influenzato da artisti come Walt Disney e Dr. Seuss, ma anche dai fumetti che leggevo avidamente. Quando sono andato a New York alla fine degli anni ’70, ho scoperto il fervore creativo che ribolliva nella città. Era come un universo parallelo: i graffiti, la street art, la musica punk e la nascente scena hip-hop mi hanno letteralmente spalancato un mondo nuovo. La mia “tela” è diventata la città stessa.
La vera svolta è arrivata con le lavagne nere vuote nella metropolitana: uno spazio di comunicazione diretto, gratuito e accessibile a tutti. Iniziavo il mio lavoro con un gesso bianco, creando immagini che parlavano di amore, pace, giustizia e connessione umana. Mi piaceva che chiunque, senza bisogno di un museo o di una formazione artistica, potesse entrare in contatto con ciò che facevo.
Da lì, tutto è esploso: mostre, collaborazioni e grandi murales. Ma sai, in fondo non ho mai smesso di fare ciò che facevo da bambino—usare il disegno per connettermi con gli altri.
Conflitti con le forze dell’ordine negli anni ’80
F.C. Hai mai avuto paura della polizia durante le tue incursioni artistiche?
Keith Haring: Oh, assolutamente! A New York, negli anni ’80, fare arte per strada significava costantemente rischiare di essere fermati o arrestati dalla polizia. C’era sempre quella tensione quando scendevo nella metropolitana con il mio zaino pieno di gessi o spray. Ma devo dirti una cosa: la paura non mi ha mai fermato. Era una parte del gioco, un rischio che accettavo perché sapevo che ciò che stavo facendo aveva valore.
Mi ricordo una volta, ero nel bel mezzo di disegnare su una di quelle lavagne nere pubblicitarie vuote della metropolitana, e un poliziotto si avvicinò. Il cuore mi batteva fortissimo. Mi guardò per un momento, poi scrollò le spalle e se ne andò. Forse aveva capito che non stavo facendo danni veri, che stavo semplicemente cercando di comunicare qualcosa di positivo. Altre volte, però, non sono stato così fortunato: sono stato arrestato diverse volte, anche se mai per molto tempo.
La cosa interessante è che ogni arresto rafforzava in me la convinzione di continuare. Vedevo le reazioni delle persone, quanto amavano quei disegni effimeri. E sapevo che la mia arte aveva uno scopo più grande. Era un rischio che valeva la pena correre, ogni singola volta.
Intervista impossibile a Keith Haring: L’influenza della musica
F.C. Che influenza ha avuto la musica sul tuo lavoro?
Keith Haring: La musica è stata una delle mie più grandi fonti di ispirazione, praticamente il battito cardiaco del mio lavoro. Quando sono arrivato a New York negli anni ’80, mi sono immerso completamente nella scena musicale dell’epoca: il punk, il new wave, e soprattutto la nascente cultura hip-hop. Era una rivoluzione, e io ne ero affascinato.
Frequentavo locali come il Club 57 e il Paradise Garage, dove artisti, musicisti e creativi si incontravano e contaminavano le loro idee. La musica lì era più di un sottofondo; era un’energia, un linguaggio che si mescolava perfettamente con quello visivo. Ero particolarmente colpito dall’hip-hop, che vedevo come una forma di arte pubblica e accessibile, proprio come i graffiti. Aveva una vibrazione urbana e comunitaria che mi rispecchiava profondamente.
Quando lavoravo, spesso ascoltavo musica. I ritmi e i suoni influenzavano il flusso delle mie linee. La ripetizione di un beat si rifletteva nei miei pattern ripetitivi, mentre l’energia pulsante delle canzoni mi spingeva a creare figure dinamiche e in movimento. A volte sembrava quasi che stessi “ballando” con il pennello o il gesso.
E poi c’erano le collaborazioni. Lavorare con persone come Grace Jones o disegnare scenografie per video musicali mi permetteva di intrecciare direttamente il mio lavoro con la musica. Era una sinergia naturale: il suono e la linea, entrambi potenti e universali, entrambi capaci di connettere le persone. Per me, la musica e l’arte visiva non sono mai state separate; erano due voci dello stesso dialogo.
Intervista impossibile a Keith Haring: Il Rapporto con gli altri artisti
F.C. E che rapporto avevi con gli altri artisti?
Keith Haring: Il rapporto con gli altri artisti è sempre stato fondamentale per me. Non ho mai creduto nell’idea dell’artista come figura isolata che lavora in solitudine. Per me, l’arte è sempre stata una questione di connessione e collaborazione. Quando sono arrivato a New York, la scena artistica era incredibilmente vivace e collaborativa, e io mi sono tuffato a capofitto in quel mondo.
Andy Warhol è stato una delle influenze più importanti nella mia vita. Era già un’icona quando l’ho conosciuto, ma non si comportava mai come tale. Andy aveva questa incredibile capacità di vedere il potenziale negli altri e di mettere insieme persone che altrimenti non si sarebbero mai incontrate. Abbiamo collaborato in diverse occasioni, e lui mi ha insegnato molto su come navigare il mondo dell’arte, ma anche su come restare fedele a se stessi.
Poi c’erano artisti come Jean-Michel Basquiat, Kenny Scharf e tanti altri della scena downtown. Con Jean-Michel, c’era una sorta di fratellanza artistica: entrambi venivamo da ambienti diversi, ma ci eravamo trovati nella stessa battaglia per portare l’arte “di strada” nei musei e nelle gallerie. Basquiat aveva un’intensità incredibile, e credo che ci siamo ispirati a vicenda in molti modi.
La cosa che amavo di quella comunità era che non c’erano barriere tra discipline. Musicisti, pittori, registi, performer: tutti si influenzavano reciprocamente. Il Club 57, ad esempio, non era solo un luogo fisico, ma una fucina di idee dove sperimentavamo liberamente. Quelle connessioni mi hanno arricchito e spinto a crescere come artista.
Certo, non mancavano rivalità o tensioni, ma facevano parte del gioco. Alla fine, il rispetto per il lavoro degli altri e l’energia creativa collettiva erano sempre al centro. Quello spirito di comunità è qualcosa che porto con me, ovunque vada.
Intervista impossibile a Keith Haring: il processo artistico
F.C. Spiegaci il tuo processo creativo, come nasce?
Keith Haring: Il mio processo creativo nasce tutto dall’energia del momento. È un flusso continuo, un dialogo tra la mia mente, il mio corpo e lo spazio che mi circonda. Non inizio mai con un piano rigido o uno schema preciso; preferisco lasciare che le idee emergano spontaneamente, guidate dalla linea, dal movimento e dalle emozioni.
Di solito, parto con una superficie vuota—che sia una lavagna nella metropolitana, una tela, un muro o persino il pavimento—e semplicemente inizio. La prima linea è fondamentale: è come accendere un motore. Una volta tracciata, le altre seguono quasi automaticamente, come se la mano sapesse già cosa fare prima ancora della mia mente. Mi affido molto al mio istinto.
Le linee sono al centro di tutto. Per me, sono più che semplici contorni; sono vita, energia pura che si muove nello spazio. Ogni figura, ogni forma nasce da queste linee fluide, che non si interrompono mai. È come se stessi raccontando una storia visiva senza parole, usando il ritmo delle linee per creare connessioni e movimento.
Spesso, mi lascio influenzare dall’ambiente in cui lavoro. Se sto dipingendo un murale in un quartiere, penso alle persone che vivono lì, a come potrebbero interagire con l’opera. Voglio che la mia arte comunichi direttamente con chi la osserva, che parli una lingua universale fatta di simboli semplici ma potenti: cuori, persone danzanti, cani che abbaiano. Sono icone che chiunque, di qualsiasi età o cultura, può comprendere.
Il colore è un’altra parte essenziale. Uso tonalità vivaci perché trasmettono gioia, vitalità e ottimismo. Quando dipingo, il colore non è solo estetica; è una forma di emozione pura che aggiunge un’altra dimensione alla storia che sto raccontando.
Alla fine, il mio processo creativo è tutto basato sull’immediatezza e sulla connessione. Non si tratta solo di creare qualcosa di bello; si tratta di creare qualcosa che possa essere vissuto, sentito e condiviso. È una danza tra me e il mondo, e la mia arte è il risultato di quel dialogo.
Le storie sulla condizione umana
F.C. Che storie racconti con la tua arte?
Keith Haring: Le storie che racconto con la mia arte parlano della condizione umana, delle nostre emozioni più universali e delle connessioni che ci legano come esseri umani. Sono storie che nascono dall’amore, dalla gioia, dalla paura, dalla lotta, e dal desiderio di libertà e giustizia. Cerco di tradurre queste esperienze in immagini che siano immediate, potenti e accessibili a tutti.
Una delle mie narrazioni principali è quella della comunità e dell’unità. Le figure umane che disegno, spesso stilizzate e interconnesse, rappresentano l’idea che nessuno di noi è solo. Siamo tutti parte di un insieme più grande, una rete di relazioni che ci sostiene e ci definisce. I miei “omini danzanti”, che si muovono e interagiscono, sono una celebrazione della vitalità e della gioia che possiamo trovare nell’essere insieme.
Racconto anche storie di lotta e resistenza. La mia arte ha sempre avuto una forte componente sociale e politica. Temi come l’epidemia di AIDS, il razzismo, la disuguaglianza e la violenza mi hanno spinto a creare opere che sensibilizzassero e stimolassero il cambiamento. Ad esempio, il mio famoso murale “Crack is Wack” è nato come un grido d’allarme contro l’epidemia di droga che stava devastando le comunità.
Poi c’è l’amore, un tema che pervade tutto il mio lavoro. I cuori che disegno non sono solo simboli romantici, ma rappresentano il potere universale dell’amore: l’amore per gli altri, per se stessi, per la vita. È un messaggio semplice ma essenziale, che credo possa raggiungere chiunque.
Infine, racconto storie di speranza. Non importa quanto il mondo possa sembrare difficile o ingiusto, voglio che la mia arte ricordi alle persone che c’è sempre qualcosa di positivo per cui lottare, qualcosa che ci può unire e ispirare. La mia arte è una sorta di linguaggio visivo che invita le persone a riflettere, a sorridere e, spero, a sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Intervista impossibile a Keith Haring: Il mercato dell’arte tra streetart e musei
F.C. Che rapporto hai con il mercato? da quando hai cominciato sino a dopo la tua morte quante cose son cambiate?
Keith Haring: Ah, il mercato dell’arte! Che relazione complicata e, a volte, paradossale ho avuto con esso. Quando ho iniziato a fare arte, non pensavo affatto al mercato. Ero più interessato a comunicare, a connettermi direttamente con le persone. Disegnavo sulle lavagne nere della metropolitana o su grandi muri perché volevo che la mia arte fosse pubblica, gratuita e accessibile. Volevo che chiunque, indipendentemente dal proprio background, potesse entrare in contatto con il mio lavoro.
Poi, però, ho iniziato a ricevere attenzione dalle gallerie e dai collezionisti. Ammetto che è stato un passaggio strano: vedere la mia arte, che avevo concepito per le strade e per tutti, entrare nel mondo elitario delle gallerie e dei musei. Ma ho capito che era anche un’opportunità. Potevo usare la visibilità del mercato per finanziare progetti più grandi, come murales pubblici, e per sostenere cause che mi stavano a cuore.
Ho sempre cercato di mantenere un equilibrio. Da una parte, lavoravo con gallerie e producevo opere per i collezionisti; dall’altra, continuavo a creare murales, poster e arte per le strade, senza mai perdere il legame con il mio pubblico originale. Volevo dimostrare che si poteva essere parte del mercato senza essere schiavi di esso. Per esempio, ho prodotto merchandising—magliette, poster, spille—con l’obiettivo di rendere l’arte ancora più democratica e alla portata di tutti.
Dopo la mia morte, le cose sono cambiate in modi che non avrei mai potuto immaginare. Il mio lavoro è diventato incredibilmente iconico, e i prezzi delle mie opere sono schizzati alle stelle. È strano pensare che la stessa arte che volevo fosse accessibile a chiunque sia ora considerata un lusso per pochi. Ma allo stesso tempo, la mia visione continua a vivere. Le immagini e i messaggi che ho creato sono ovunque: su muri, magliette, libri e piattaforme digitali.
Quello che è rimasto invariato è il messaggio. Anche se il mercato dell’arte può essere elitario, la mia arte è ancora capace di raggiungere e ispirare persone di tutto il mondo. Questo, per me, è ciò che conta davvero. La vera vittoria è che la mia visione di un’arte universale e inclusiva non è stata cancellata, nemmeno dal potere del mercato.
Intervista impossibile a Keith Haring: I consigli per i giovani artisti
F.C. Cosa consiglieresti ad un giovane che vuole diventare un grande artista oggi?
Keith Haring: Il mio consiglio per un giovane artista che vuole lasciare il segno oggi è semplice: sii autentico, coraggioso e generoso. L’arte più potente nasce dalla verità, dal coraggio di esprimere chi sei e dal desiderio di connetterti con gli altri. Non cercare di imitare chi è venuto prima di te; invece, scopri la tua voce unica e usala per raccontare qualcosa che solo tu puoi raccontare.
Ecco alcune cose che avrei voluto sentirmi dire quando ho iniziato:
Trova il tuo linguaggio: Non preoccuparti di adattarti a ciò che va di moda o a ciò che il mercato richiede. L’arte autentica non segue le tendenze, le crea. Cerca il tuo stile, sperimenta e lasciati guidare dalla tua passione. Le tue linee, colori e idee devono venire da dentro di te, non da ciò che pensi che gli altri vogliano vedere.
Lavora senza paura: Il mondo può essere pieno di critici e giudizi, ma non lasciare che questo ti fermi. La paura è il più grande nemico della creatività. Esci dalla tua zona di comfort, rischia, fallisci e poi rialzati. Ogni errore è un passo verso qualcosa di più grande.
Racconta qualcosa che conta: L’arte non è solo estetica; è un mezzo per comunicare, per sollevare domande, per dare voce a chi non ne ha. Che sia un messaggio politico, sociale o profondamente personale, fai in modo che il tuo lavoro abbia un significato. L’arte che tocca le persone è quella che parla di ciò che è universale.
Abbraccia la comunità: Non lavorare da solo. Circondati di altri artisti, musicisti, scrittori e creativi. L’arte è anche connessione, e crescere insieme agli altri può portarti molto più lontano di quanto potresti andare da solo. Collabora, scambia idee, impara da chi ti ispira.
Usa le piattaforme moderne: Oggi hai un vantaggio che io non avevo: la tecnologia. Usa i social media, le piattaforme online e i mezzi digitali per condividere il tuo lavoro e raggiungere persone in tutto il mondo. La tua arte non ha bisogno di un gallerista per essere vista; può arrivare ovunque, anche nelle case di chi non ha mai messo piede in un museo.
Non fare arte per il mercato: Se cerchi solo il successo economico o il riconoscimento immediato, rischi di tradire la tua visione. Il successo arriverà se il tuo lavoro è autentico e significativo. Concentrati sull’arte, non sul denaro.
Infine, ricorda sempre che essere un artista è un viaggio, non una destinazione. Ci saranno alti e bassi, ma se resti fedele a te stesso e al tuo lavoro, troverai il tuo posto nel mondo. E, soprattutto, divertiti: l’arte è una celebrazione della vita, con tutte le sue complessità e meraviglie.

Disambigua: Questa Intervista impossibile a Keith Haring è stata formulata per scopi ludico informativi con ChatGPT 4o il progetto “Interviste impossibili a…” è stato presentato da Francesco Cogoni per ConnectivArt vanta un articolo a settimana per x tempo e vedrà protagonisti gli artisti più celebri di ogni campo seguiteci sui social e sul sito per rimanere sempre aggiornati e curiosare sui nostri contenuti.
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Se non lo conoscete, vi consigliamo l’articolo su uno degli artisti contemporanei più fortemente influenzati dal lavoro di Haring: La nuova Villa di Mr. Doodle | ConnectivArt
Francesco Cogoni.