Mumblecore: quando il cinema sussurra e racconta la verità
Scoprire il mumblecore è stato per me come imbattersi in una conversazione al tavolo accanto che, pur non essendo rivolta a me, riesce a catturarmi con la sua disarmante sincerità. Un cinema che non urla, non esplode, non si sforza di intrattenere: sussurra, balbetta, inciampa nelle parole – proprio come noi.
Il mumblecore è nato negli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000, e fin da subito ha rifiutato le regole del cinema classico. Nessuna epica, nessuna fotografia patinata, nessun effetto speciale. Solo dialoghi improvvisati, attori non professionisti, videocamere digitali, appartamenti in affitto usati come set e storie che sembrano uscite dalla vita reale: amori che non decollano, lavori precari, sogni confusi, identità in cerca di senso.
Ricordo la prima volta che ho visto Funny Ha Ha di Andrew Bujalski, spesso considerato il primo film del genere. Rimasi disorientato. Non succedeva quasi nulla, ma proprio in quell’apparente vuoto si insinuava una verità che il cinema tradizionale raramente osa raccontare: la verità della noia, dell’incertezza, del quotidiano. Era come guardarmi allo specchio.

Mumblecore: Un’estetica fai-da-te che sa di casa
Una delle cose che più mi ha colpito del mumblecore è la sua estetica DIY – Do It Yourself. Non servono gradi accademici né milioni di dollari: bastano una telecamera economica, un po’ di amici disposti a recitare, e una buona dose di sincerità. Il budget ridotto non è una limitazione, ma un linguaggio. Ogni imperfezione – l’audio sporco, le inquadrature sbilenche, le luci naturali – diventa parte integrante dell’esperienza.
Questo minimalismo produttivo si riflette anche nella trama. Dimenticatevi gli archi narrativi in tre atti o i colpi di scena: qui si raccontano frammenti. Un dialogo imbarazzante con un ex. Una passeggiata senza meta. Il silenzio pesante di chi non sa come esprimersi. Ogni dettaglio è carico di vita, proprio perché non forzato.

Le voci che hanno sussurrato un cambiamento
Durante il South by Southwest Festival del 2005, il critico Eric Masunaga coniò il termine “mumblecore” per descrivere i film che, come The Puffy Chair dei fratelli Duplass o Kissing on the Mouth di Joe Swanberg, sembravano parlare la stessa lingua silenziosa: quella dei giovani adulti che cercano di capire chi sono, mentre la vita scorre senza chiedere permesso.
Registi come Lynn Shelton, Greta Gerwig (prima attrice, poi autrice), Noah Baumbach e Barry Jenkins hanno preso quell’eredità e l’hanno trasformata in qualcosa di più grande, portando lo spirito mumblecore dentro film sempre più sofisticati. Penso a Frances Ha, con le sue coreografie urbane e malinconiche, o a Drinking Buddies, che conserva l’improvvisazione ma la affida a volti noti come Olivia Wilde e Jake Johnson.

Una rivoluzione silenziosa nel cinema
Oggi molti di quei registi non vogliono più essere associati al termine. Forse perché è diventato una sorta di etichetta vintage, o forse perché il mumblecore si è ormai dissolto nei mille rivoli del cinema indipendente. Ma il suo spirito è ancora vivo: ogni volta che un film decide di raccontare la vita senza orpelli, ogni volta che un regista accetta il rischio dell’imperfezione per restare fedele alla realtà, il mumblecore è lì.
Per me, questo movimento ha rappresentato una piccola rivoluzione personale. Mi ha insegnato che il cinema non deve per forza urlare per farsi ascoltare. Può anche bisbigliare. E, a volte, sono proprio quei bisbigli a rimanere più a lungo nella memoria.
Francesco Cogoni
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