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Sul Palco con Orgoglio: Il teatro LGBTQ+ memoria e rivoluzione

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di collaborare con una compagnia teatrale indipendente che portava Il teatro LGBTQ+ alle famiglie.
Era un piccolo gruppo, niente budget da festival, niente grandi nomi, ma una passione che bruciava più di qualsiasi riflettore. Con loro ho vissuto un’esperienza che ha fatto nascere in me la voglia di approfondire non solo sul teatro, ma anche la memoria, la politica e l’identità relativa a queste tematiche.

Era un laboratorio di narrazione e di verità: tra le prove, le risate, le discussioni, si permetteva di mettere in scena le nostre vite.
Là dove mancavano i copioni, arrivavano le testimonianze; le storie, le paure e le speranze.

Il teatro come archivio vivente

Il teatro, da sempre, è uno spazio di finzione che dice la verità. E per le persone LGBTQ+, è stato — e continua a essere — uno dei pochi luoghi dove si può esistere senza maschere (o con maschere finalmente scelte).

Non è un caso se già nella Grecia antica i ruoli femminili erano interpretati da uomini, o se nel teatro elisabettiano l’ambiguità di genere era all’ordine del giorno. Shakespeare stesso — spesso oggetto di speculazioni sulla sua sessualità — ha scritto pagine su pagine dove il travestimento e il desiderio omosessuale scorrono tra le righe (Viola in La dodicesima notte, ad esempio).

Nel ‘900, poi, il teatro ha accolto apertamente le tematiche LGBTQ+ molto prima del cinema o della televisione. Basti pensare a The Children’s Hour di Lillian Hellman (1934), un testo rivoluzionario per l’epoca, che affrontava l’accusa di lesbismo in un collegio femminile. Oppure Bent di Martin Sherman, che nel 1979 riportò alla luce la persecuzione degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti — uno spettacolo che, ancora oggi, mi toglie il fiato solo a pensarci.

Il palco come atto di resistenza

Con il gruppo con cui ho lavorato, portavamo in scena storie spesso ispirate a fatti reali: coming out dolorosi, relazioni spezzate, famiglie ritrovate. Ricordo una performance dedicata a Marsha P. Johnson, tra luci psichedeliche e monologhi urlati nel buio, e un’altra ispirata alle lettere d’amore censurate tra soldati durante la guerra.

In ogni spettacolo c’era il desiderio di far memoria. Di dire: siamo sempre esistiti. Anche quando la Storia ci ha ignorato.

E non eravamo i soli.

Oggi, in tutto il mondo, il teatro LGBTQ+ è vivo e potente. Penso a spettacoli come “Angels in America” di Tony Kushner, un’epopea queer ambientata durante l’epidemia di AIDS, ancora tragicamente attuale. O “The Inheritance” di Matthew López, che attraversa le generazioni per raccontare cosa significa essere gay oggi, con il peso e l’eredità di chi ci ha preceduti.

Penso a “Rotterdam” di Jon Brittain, una storia di transizione di genere che non cerca pietà ma offre verità. A “Hir” di Taylor Mac, dove l’identità queer si scontra con la disfunzione familiare e le macerie del patriarcato. O a “Fun Home”, il musical tratto dalla graphic novel di Alison Bechdel, un gioiello che mescola autobiografia, omosessualità e lutto con una delicatezza disarmante.

Il teatro LGBTQ+ oggi: più di una nicchia

Chi pensa che il teatro LGBTQ+ sia una “nicchia” non ha ancora visto le sale piene, le standing ovation, le lacrime trattenute e poi liberate a fine spettacolo.
Il pubblico non è solo queer — è umano. Perché le storie che raccontiamo parlano di amore, perdita, identità, conflitto: temi universali, ma vissuti attraverso prospettive che per troppo tempo sono state tenute ai margini.

Anche in Italia, lentamente, qualcosa si muove. Penso a realtà come Teatro dell’Elfo a Milano o Teatro Valle Occupato nei suoi anni più attivi, che hanno dato spazio a narrazioni non convenzionali. Oppure ai progetti di Riccardo Goretti, Silvia Calderoni, o collettivi come Motus, che hanno fatto del corpo queer un vero e proprio linguaggio scenico.

Perché tutto questo è ancora necessario

Il mondo fuori non è sempre un posto sicuro per chi non rientra nelle norme. Ma il teatro, quando è fatto con onestà e coraggio, può diventarlo.
Può essere rifugio, specchio, altare.
E anche arma.

Raccontare storie LGBTQ+ sul palco non è solo un atto artistico: è politico, spirituale, profondamente umano. È un modo per dire: esisto, ti vedo, resistiamo.

Il teatro LGBTQ+: una chiamata aperta

Non so se tornerò mai a recitare con quella compagnia. Ma porto dentro ogni applauso, ogni silenzio carico, ogni battuta che tremava prima di uscire.
So solo che, finché ci saranno corpi disobbedienti e voci fuori dal coro, il teatro queer continuerà a vivere.
E io sarò lì, in prima fila.

Francesco Cogoni.

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