ArticoliFilmRecensioni Film

The Brutalist – Architettura di un film dalle fondamenta instabili

Seguo sempre con attenzione la programmazione del cinema, e The Brutalist era tra quei titoli che aspettavo con impazienza. Dopo la vittoria dell’Oscar di Adrien Brody come miglior attore protagonista, le aspettative si sono impennate.

Mi aspettavo un’opera solida, capace di scolpire nella memoria il suo messaggio. Eppure, sebbene il film abbia tutti gli elementi del grande cinema, qualcosa sembra sfuggire, come una crepa nascosta nel cemento di un’opera monumentale.


Lo stile di Brady Corbet

The Brutalist, diretto da Brady Corbet, regista noto per il suo stile rigoroso e cerebrale, esplora la costruzione e la decostruzione dell’identità attraverso una messa in scena geometrica e distanziata.
Il suo cinema è visivamente impeccabile, con una forte impronta autoriale che gioca tra estetica e psicologia. Anche in questo film, il regista dimostra una padronanza visiva impressionante, ma resta la sensazione che l’emozione venga sacrificata in favore della forma.


The Brutalist: La trama e il viaggio di László Tóth

La storia segue László Tóth, un architetto ungherese di origini ebraiche che, dopo essere sopravvissuto all’Olocausto, emigra negli Stati Uniti nel 1947. La narrazione si concentra sul suo percorso di ascesa e compromesso in una società che lo accoglie solo a determinate condizioni.

Il sogno americano si rivela per lui un labirinto di speranze e disillusioni, in cui ogni conquista sembra portare con sé un prezzo da pagare. La prima parte del film è intensa, costruita con una tensione crescente e un senso di spaesamento che avvolge il protagonista. Appena arrivato in America, trova un primo rifugio presso la casa di suo cugino ma un’accusa infamante da parte della moglie di quest’ultimo lo costringe a cercare un’altra via per sopravvivere.


Le prime difficoltà e il baratro della miseria

È il primo segnale che il suo passato e la sua identità non troveranno facilmente spazio nel nuovo mondo. Poi arriva quella che sembra la prima svolta: la commissione di una libreria. Ma ben presto si rivela un abbaglio.

Il committente non lo paga, e il sogno si trasforma in un nuovo incubo. Senza soldi, senza prospettive, László sprofonda di nuovo nella miseria e si ritrova costretto a spalare carbone per pochi spiccioli.
È in questo periodo che inizia a farsi di eroina, un segnale di resa alla brutalità della vita, un rifugio momentaneo dal dolore e dall’umiliazione.


L’occasione della rivincita e il compromesso artistico

Poi, un’altra svolta, come da copione in tutte le storie ben scritte: il ricco imprenditore che tempo addietro lo aveva umiliato, nota il suo talento e gli offre di lavorare per lui. Sembra finalmente l’occasione che può portarlo alla fama ma non è tutto oro quel che luccica.

László entra in un mondo di lusso e privilegi, ma a quale costo? È un uomo che ha conosciuto la fame, il peso della perdita, il tradimento delle proprie speranze. La sua arte, così viscerale, viene piegata alle esigenze di chi ha il potere economico di determinarne il valore.

Proprio qui il film si fa più ambiguo, più sottile nel raccontare la frustrazione di un uomo che, pur avendo tutto, si accorge di non avere niente. La freddezza con cui viene resa questa lotta interiore è calcolata e trova la sua perfetta trasposizione visiva nell’estetica brutalista: rigida, essenziale, inesorabile.


Il rapporto con Erzsébet e la mancata profondità emotiva

Un aspetto centrale della trama è il rapporto tra László e sua moglie Erzsébet, interpretata da Felicity Jones. Separati durante la guerra, la loro riunione negli Stati Uniti è carica di aspettative e dolore.

Erzsébet arriva accompagnata dalla nipote adolescente Zsófia (muta per motivi non precisati), ma le sofferenze patite durante il conflitto l’hanno resa fragile, costringendola su una sedia a rotelle. La loro relazione, segnata dalla resilienza e dalla tragedia, avrebbe potuto essere un potente fulcro emotivo del film. Tuttavia, la sceneggiatura non approfondisce adeguatamente questa dinamica, lasciando il pubblico con una sensazione di distanza emotiva.

A questo proposito, la sessualità tra i due appare forzata e del tutto irrilevante ai fini del film. La loro fisicità è fredda, priva di un autentico senso di desiderio o passione. Peccato, perché Erzsébet è un personaggio che avrebbe potuto incarnare un conflitto più profondo tra amore, perdita e bisogno di riconnessione.


The Brutalist: Una seconda parte meno incisiva

La seconda parte del film prende una direzione meno incisiva. I temi affrontati – l’immigrazione, l’identità artistica, il compromesso morale, la violenza sociale, il peso della memoria – rimangono sospesi, accennati senza mai essere davvero approfonditi.

Ciò che mi ha lasciato perplessa è la mancanza di un reale coinvolgimento emotivo. I personaggi, a partire dal protagonista, sembrano trattenuti, come se fossero stati costruiti più per sottrazione che per slancio vitale.

In questa pellicola avrei voluto vedere più poesia verso l’arte e l’architettura come espressione dell’anima. Il brutalismo, che avrebbe potuto essere il fulcro narrativo dell’opera, resta in secondo piano, ridotto quasi a un mero elemento scenografico.


La potenza visiva e i suoi limiti

La fotografia di The Brutalist riempie lo schermo, più della sceneggiatura stessa. Ogni inquadratura è pensata per essere non solo vista, ma percepita con i sensi. Tuttavia, proprio questa potenza visiva contrasta con la freddezza della narrazione, che sembra non voler mai affondare davvero il colpo.

Persino l’elemento storico, come il trauma dell’Olocausto, viene solo sfiorato, senza che i personaggi sembrino realmente attraversati da quel dolore. Questo lascia una strana sensazione di vuoto, come se il film avesse scelto di non spingersi fino in fondo nelle sue stesse premesse.


The Brutalist: un film incompiuto?

Le interpretazioni del cast sono impeccabili. Adrien Brody offre una performance carica di tensione interiore, un’interpretazione in cui il non detto pesa più delle parole. La colonna sonora contribuisce a rendere il film magnetico nella sua staticità emotiva.

The Brutalist è un’opera che chiede di essere vissuta, e che sicuramente lascia il segno per la sua estetica. Ma è anche un film che lascia con la sensazione di qualcosa di incompiuto.

Avrebbe potuto scavare più a fondo, così come László ha fatto con i corridoi della sua architettura, lasciandoli vuoti per poterli esplorare. Ma qui il vuoto sembra più un’occasione mancata che una scelta consapevole.

Anna Gioia Manca

Consigliamo anche:

Buon compleanno Mr. Grape: recensioni Ferrante | ConnectivArt

Longlegs: Recensione a caldo | ConnectivArt

Il ragazzo e l’airone: una recensione breve | ConnectivArt

ConnectivArt.

/ 5
Grazie per aver votato!
Summary
Article Name
The Brutalist – Architettura di un film dalle fondamenta instabili
Description
Seguo sempre con attenzione la programmazione del cinema, e The Brutalist era tra quei titoli che aspettavo con impazienza.
Author
Publisher Name
ConnectivArt

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Verificato da MonsterInsights