Quando e come nasce il tuo percorso artistico fotografico?
La premessa doverosa è che non mi considero un fotografo in senso stretto.
Lo sono, nel senso che credo di essere in grado di scattare una fotografia; non lo sono, nel senso che non ho mai contemplato l’idea di farlo per mestiere.
Mi reputo un fotoamatore spinto dal desiderio di comunicare delle cose che gli stanno a cuore. Detto questo, ho iniziato prestissimo.
Mio padre era un fotoamatore evoluto e in casa avevamo una camera oscura – parlo qui della fine degli anni ’60 e dell’inizio dei ’70.
Ho iniziato a entrarci con lui attorno ai 4-5 anni, e mi piaceva vederlo stampare le foto.
Per emulazione, scattavo io stesso, quando me lo permetteva.
Credo di avere sviluppato il mio primo rullino da solo attorno agli 8 anni.
Da lì ho sempre continuato, alternando periodi di attività a momenti di sospensione.
Non ho mai avuto un tema fotografico preferenziale, fino a che non ho iniziato a fare fotografia di scena, soprattutto in contesti musicali.
Se dovessi a tutti i costi dare una definizione di ciò che faccio penso di essere un ritrattista anomalo.
Discuterò tra breve cosa intendo con questa espressione.
Quali artisti hanno influenzato maggiormente il tuo lavoro?
Se parliamo della fotografia di scena, nessun dubbio: il mio grande amico Armando Gallo, che è uno dei fotografi rock più noti al mondo. Anche il lavoro di Guido Harari mi è sempre piaciuto, e così quello di Anton Corbijn.
Tra i ritrattisti in senso stretto direi Richard Avedon, Robert Mapplethorpe e Diane Arbus, per citare i mostri sacri.
Per restare più vicini a noi, nutro grande ammirazione per il lavoro di Sara Lando e Alfredo Sabbatini, anche loro due ottimi amici.
Cosa cerchi di cogliere ed esprimere attraverso la fotografia?
Molti pensano che fotografare un concerto rientri nel reportage, e per certi versi è vero.
Per me si tratta invece di ritrattistica, ma anomala.
Stando sotto al palco, non posso né interagire con i soggetti, né controllare la luce: due capisaldi del ritratto.
Ma dal mio punto di vista lo scopo è catturare qualcosa di vero, di fermare un attimo che dica davvero qualcosa sul soggetto ripreso.
I musicisti spesso hanno istanti di completa nudità emotiva, quando suonano: quindi, paradossalmente, i miei sono ritratti – perlomeno nella mia testa.
C’è una fotografia che ho scattato a Giorgio Canali con i suoi Rossofuoco che mi ha richiesto una decina di concerti ai quali ha partecipato, e forse un migliaio di scatti.
Nel tempo ho imparato a prevedere le sue reazioni e le sue espressioni, e a un certo punto ho iniziato a scattare non tanto quando vedevo qualcosa che m’interessava, ma in anticipo: perché se scatto quando vedo accadere le cose, è già tardi.
Considero quella foto un esempio perfetto di “ritratto anomalo” e molte persone sembrano riconoscere davvero gli artisti nelle mie foto: nel senso che quelle foto sembrano esprimere ciò che anche loro vedono nei soggetti ritratti.
Questo mi basta e avanza, non ho altre esigenze.
Andrea Chimenti
C’è una parte della tua ricerca di cui vorresti parlare in particolare?
Sono più un post-produttore che un fotografo: il primo ruolo è un mestiere che esercito professionalmente, il secondo no.
Eppure tendo a post-produrre pochissimo le mie fotografie.
Nel tempo, ad esempio, cerco di tagliare sempre di meno e di non intervenire se non in maniera minimale.
È rarissimo il contrario, anzi. Ho imparato sul campo che le foto migliori non sono quelle più pulite e patinate, ma quelle che dicono qualcosa.
Quando gli Estra nel 2015 tennero il loro ultimo concerto, annunciando che non ci sarebbero più stati altri spettacoli, avevo un accredito per cui mi fecero uscire dalle transenne dopo tre brani, come accade di solito.
Invece che sedermi a seguire il concerto mi spinsi più che potevo sotto il palco per scattare da lì.
Puoi immaginarti: in mezzo alla fossa dei leoni, gente che spinge, con lo zaino in mezzo e il 300 mm, quasi al buio, a 3200 ISO o di più, e se va bene devi scattare con 1/50” a tutta apertura. Butti via tre quarti del lavoro, per forza.
Quando il giorno dopo feci la mia selezione, mi fermai su una foto che mi piaceva moltissimo, ma che era zeppa di errori.
Ne aveva almeno quattro, imperdonabili, e la cestinai – letteralmente. Al momento di pubblicare le altre, però, questa cosa mi rodeva.
Riaprii il cestino e decisi che non m’importava se qualcuno un attimo prima di scattare aveva messo la sua testa tra me e il soggetto – che pure si vedeva.
Decisi che l’avrei inserita, in mezzo alle altre, e che forse nessuno l’avrebbe notata.
Era quasi un mio sfizio, diciamo.
Meno di ventiquattr’ore dopo, quella foto divenne la copertina della pagina del gruppo, su Facebook, e lì rimase per un mese circa.
La apprezzarono tutti, venne commentata moltissimo e sempre in maniera positiva.
Non so quante foto erano state scattate quella sera, in un’occasione così speciale… diverse migliaia, di certo.
Eppure ne venne scelta una sporca, composta male e tecnicamente discutibile, che però esprimeva qualcosa di speciale.
È questione di fortuna, ma anche di determinazione.
E un pizzico di coraggio nei confronti di chi ti dirà che il tuo scatto è “rumoroso”.
Certo, lo so, ma è il mio: quindi, taci. In ogni caso, un momento di svolta ci fu: Roma, novembre 2015 – quando venni invitato a fotografare la riproposizione di “Epica Etica Etnica Pathos” dei CCCP.
Quella notte nacquero molte cose importantissime che continuano ancor oggi.
In particolare, il mio rapporto fraterno e di collaborazione con Gianni Maroccolo.
Valeva assolutamente la pena di fare 1.200 km in ventiquattr’ore per esserci.
Qual’è il tuo rapporto con il mercato?
Non ho un mercato. Non m’interessa averlo. Il motivo per cui fotografo (solo ciò che voglio io, e quando lo voglio io) è semplice: m’illudo di restituire agli artisti che ho amato di più una piccola parte di ciò che loro hanno dato a me.
Spesso mi trovo a interagire con loro, e talvolta siamo diventati realmente amici.
Questo ha un valore assai più alto del denaro, quindi in un certo senso il mio compenso è proprio quello. Non essere un professionista è un vantaggio.
Non escludo che un giorno qualcuno possa acquistare qualche foto mia, ma al momento è un pensiero che mi trova estraneo, né m’interessa.
Mi rendo conto che questo potrebbe urtare certi professionisti, che potrebbero sostenere che io gli rubo il lavoro; ma non è vero – perché a parte un caso soltanto ho sempre chiesto io di poter fotografare questo o quell’evento, e mi sono affiancato ai fotografi ufficiali con il loro consenso.
Una sera ho diviso lo spazio dei Subsonica con Pasquale Modica, che non ha bisogno di presentazioni, e non ci sono stati problemi.
Non ho mai rubato nulla a nessuno.
Qualcuno talvolta ha rubato le mie fotografie, ma di rado.
Anche perché da un po’ ho smesso di firmarle.
Vorrei che le persone le riconoscessero come mie senza bisogno che io metta il mio nome nell’angolino in basso.
Se non accade, forse non ho lavorato abbastanza bene.
Cosa consiglieresti ad artista che vorrebbe vivere di quest’arte?
Di difendere il proprio linguaggio fino all’ultimo e di svilupparlo il più possibile, di farlo realmente diventare “suo”.
Il mondo fotografico è in crisi, ma vedo professionisti che – sia pure con fatica – lavorano ancora.
Invariabilmente, sono quelli che più infondono il loro carattere nelle fotografie che fanno.
Vedo molti fotografi “bravi” ma assai patinati, che alla fine non si distinguono dalla concorrenza.
Chi emerge, un mercato lo ha ancora – e chi emerge nel 99% dei casi ha un linguaggio ben preciso.
Questo vale, per quanto posso vedere, per tutti i temi fotografici: architettura, matrimoni, paesaggio.