Intervista a Marco Tidu
Quando e come nasce il tuo percorso artistico?
Non vorrei apparire ridondante, ma sono costretto a confermare di essere nato con una palese inclinazione per le applicazioni grafiche.
Un aneddoto che non so per quale ragione ancora mi rimane vivido nei ricordi fu quando all’asilo una delle suore che ci facevano da “maestre” disse consegnandomi a mia madre alla fine di una giornata: “vedrà che Marcolino diventerà un grande pittore!”.
Invece io non sono mai stato attratto da questa ipotesi, né allora e né più tardi, pur consapevole di possedere doti in tal senso; nella vita ho fatto tutt’altro e se nell’arte mi sono cimentato notte e giorno per quasi trent’anni è stato solo con la musica, mentre professionalmente ho svolto la mia carriera in ambito cinematografico.
Nel corso del tempo ho comunque dipinto saltuariamente giocando con l’informale, e mosso da un pacato interesse per l’arte concettuale, ma tutto ciò senza alcuna velleità e senza alcun obbiettivo se non quello di arredarmi casa.
Il Marco Tidu di cui si parla qui ha preso la matita in mano per la prima volta nel dicembre del 2013, senza che nulla potesse far supporre al seguito e senza che mai prima di allora avesse anche solo scarabocchiato un qualcosa che facesse pensare ad una simpatia per il figurativo.
Semplicemente quella sera di fine anno mi sono detto: se davvero sono nato pittore, non è possibile che muoia senza averlo mai fatto.
Non avendo colori per dipingere mi sono accontentato di una matita con cui ho disegnato sul retro di un calendario un ritratto di John Malkovich guardandolo dal monitor del PC… Da quel momento non ho più smesso di disegnare.
Ammetto che effettivamente tutto questo ricorda un po’ le avventure di Forrest Gump.
Quali persone, artisti ed episodi hanno influenzato maggiormente il tuo percorso?
L’episodio che ha influenzato maggiormente il mio percorso lo ha di fatto intralciato, quando dopo le scuole medie mi sono rifiutato di iscrivermi al Liceo Artistico per non dover prendere l’autobus tutti i giorni, optando quindi per l’Istituto Agrario che stava dietro casa, per cui quel percorso ha finito per snodarsi tra i campi. Questo accadeva molto tempo fa.
Oggi, paradossalmente non è dal mondo dell’arte visuale che io traggo le ispirazioni più profonde, bensì dalla letteratura fantastica o dalla passione per gli aspetti esoterici delle filosofie antiche, ma perlomeno da un punto di vista formale fin da subito non ho potuto non guardare dentro il buio del Merisi, nelle allucinazioni di Giger e Beksinsky, o alla geniale sensibilità di Sandorfi, o all’appagante aspetto poetico dell’iperrealismo di Helnwein.
Sebbene mi sia impossibile citare tutti gli autori che in qualche modo hanno o stanno lasciato tracce nella mia immaginazione, molti di questi (storici e contemporanei) sono certamente da collocare nell’ambito del surrealismo, “materia” che evidentemente tratto volentieri.
Cosa cerchi attraverso la forma d’arte che utilizzi?
Per quanto mi riguarda, l’opera d’arte è il frutto di un’intuizione; è cioè nel suo aspetto migliore un prodotto dell’intelletto che può trovare nell’ambito della sfera culturale una valenza significativa.
Il mio impegno è indirizzato sostanzialmente in questa direzione attraverso speculazioni sul pensiero, sulla vita interiore dell’ Uomo, sui suoi rapporti con il mondo materiale e soprattutto con quello spirituale.
Non è mio compito offrire risposte di alcun tipo, ma piuttosto attraverso le mie opere cerco di indurre l’osservatore a porsi le domande giuste.
C’è una parte nella tua ricerca artistica di cui vorresti parlare in particolare?
La risposta è già presente nella domanda, e sta nella parola “ricerca”. Non vi è nulla di più inutile oggi di un’arte che non sia territorio di indagine, e solo in funzione di questo può trovare giustificazione anche il suo aspetto ornamentale. Quando la funzione decorativa prende il sopravvento sul contenuto concettuale io vedo il fallimento dell’opera o per essere più tolleranti il suo deciso ridimensionamento.
Nel mio lavoro cerco di non smentire mai questa posizione e affronto l’impegno di approfondire il significato di quello che vado facendo dimostrandolo con scelte precise, e a volte se necessario palesemente a scapito di una “piacevolezza” che per quanto futile potrebbe attirare facilmente consensi più immediati, ma di calibro certamente modesto.
La ricerca in sé rappresenta quindi l’aspetto imprescindibile delle mie fatiche ed essa non si limita all’ambito tematico, ma necessariamente anche alla formula della sua comunicazione ossia il modo in cui la percezione dell’immagine contribuisce alla lettura del suo significato.
In questo senso, tra i principali aspetti formali, presto particolare attenzione alla psicologia della percezione del segno in funzione di quei margini di interpretazione che l’osservatore valorizza mediante le proprie esperienze, stimolando in tal modo un rapporto empatico tra lui e il soggetto dell’opera che esaurisce la sensazione di una realtà in qualche modo dinamica; in particolare nell’iperrealismo ciò mi risulta essenziale per superare il senso di innaturale staticità (che avverto come controproducente), evidenziato nella semplice riproduzione “meccanica” di un’immagine fotografica.
Qual è il tuo rapporto con il mercato?
Direi ottimo; i rari acquirenti dei miei lavori non riescono a nascondere mai l’emozione di chi viene in possesso di qualcosa di prezioso, e tanto basta.
Cosa consiglieresti ad un artista che vorrebbe vivere d’arte?
Dipende da che vita vuole fare.. Bisogna rendersi conto che l’idea di “vivere d’arte” è per lo più un romantico luogo comune, e che se arte dev’essere, lo sarà prima di tutto al di là di ogni riscontro economico.
Questa basilare consapevolezza non esclude alcuna auspicabile fortuna naturalmente, e allo stesso tempo non garantisce nulla, ma a mio parere è senz’altro il miglior modo di porsi innanzi ad un percorso di questo tipo.
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Francesco Cogoni.