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L’Epopea di Gilgameš

L’Epopea di Gilgameš è un racconto epico della Mesopotamia. Si tratta di una delle più antiche opere letterarie dell’umanità, se non la più antica, di cui la prima versione conosciuta fu scritta in accadico nella Babilonia nel XIX secolo a.C. Scritta in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, racconta le avventure di Gilgameš, re di Uruk, una figura eroica con forse qualche base storica. L’Epopea è una storia sulla condizione umana e i suoi limiti, la vita, la morte, l’amicizia e, più in generale, una storia di formazione sul risveglio dell’eroe alla saggezza.

Numerose sono le interpretazioni degli studiosi sulla natura e sui contenuti di questa prima epopea della storia dell’umanità.

Da quelle tardo ottocentesche di Hugo Winckler (1863-1913) e Heinrich Zimmern (1862-1931), che lo hanno interpretato in senso mitologico e astrologico, ovvero un poema sul dio Sole. In analogo modo, per Otto Weber (1902-1966), Gilgameš rappresenterebbe il Sole mentre Enkidu la Luna.

Arthur Ungnad (1879-1945) ha considerato il poema un’opera etica, precorritrice dell’Odissea di Omero.

Se la mia lettura è corretta,

il tema centrale del poema è dato dalla complessità psicologica del personaggio principale. Certo, Gilgameš è pur sempre presentato come l’eroe che va in cerca di fama e poi, dopo l’esperienza dell’amicizia e della morte di Enkidu, in cerca della vita eterna. Ma in effetti, sembra un pretesto narrativo per mostrare un altra tesi. L’enfasi è spostata dall’oggetto della ricerca, la vita, o meglio scappare dalla morte che ha colto En-Ki-Du, allo sforzo stesso della ricerca in quanto tale, ai presupposti su cui è basata, e alle conseguenze cui conduce: queste conseguenze non sono esterne, come lo sarebbe il conseguimento di un bene, foss’anche la vita fisica, ma invece sono interne, profondamente psicologiche e si accentrano sul mutamento spirituale del soggetto che la ricerca ha intrapreso. Ovvero un discorso sul senso profondo dell’epopea che è la vita stessa.

Gilgamesh addolorato per la perdita del suo caro amico si trova per la prima volta ad affrontare il problema della morte: teme la morte e decide di cercare l’immortalità. Il sovrano sumero inizia un viaggio in cerca di risposte e si rivolge a Utnapishtim, unico uomo sopravvissuto al Diluvio Universale, a cui gli dèi hanno concesso la vita eterna.

Non per nulla l’immortale non appare come un eroe forte e indomabile, ma come un saggio che si gode la vita disteso sui prati.

Utnapishtim

gli rivela l’esistenza della pianta della giovinezza: il re di Uruk la trova in fondo al mare ma sulla via del ritorno la pianta viene mangiata da un serpente. Gilgamesh sconfitto, torna ad Uruk e accetta il suo destino di uomo mortale e dopo aver compiuto il suo destino di lasciar incisa la sua stele, muore.
Una conclusione malinconica e inconcludente da un punto di vista eroico; da un punto di vista sapienziale invece, è una conclusione piena che non ammette ulteriori sviluppi oltre al lasciare alla memoria dei posteri la propria traccia, la sua immortalità.

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